La città di Seattle, nel 1993, si è ritrovata ad essere lo scenario di uno dei più gravi casi di contaminazione alimentare della storia recente, un evento che viene considerato come l’11 settembre per l’industria alimentare americana e che ha cambiato la consapevolezza dei consumatori americani. Un incubo per 732 persone e per le loro famiglie. E poi ci sono i bambini, gli individui più indifesi e per questo le vittime ideali. Quattro bambini sono morti in seguito a questo evento e molti altri sono sopravvissuti con problemi e lunghi anni di riabilitazione.
Stiamo parlando della contaminazione degli hamburger della catena di fast food “Jack in the box” costa ovest degli Stati Uniti anno 1993.
C’è un libro che racconta bene tutta questa storia scritto da Jeff Benedict e con il titolo “Poisoned” (ovvero “avvelenati”).
Il primo capitolo di questo libro inizia raccontando sprazzi di vita di una bambina di sei anni. Lauren. Una bambina, Lauren, piena di vita e con tante aspettative per quel Natale del 1992 che si stava avvicinando. Lauren però inizia a non sentirsi bene. Scrive anche una letterina a Babbo Natale chiedendo di star meglio. Lauren è molto amata dai suoi genitori che sono preoccupati per il suo malessere. Purtroppo i suoi sintomi si aggravarono, i genitori si spaventano quando la diarrea che sta disturbano la piccola, manifesta anche tracce di sangue. Decidono di portarla subito in ospedale. Era la vigilia di Natale. Dopo il ricovero i sintomi di aggravano e compare del sangue anche nelle urine. Poco dopo la bimba entra in coma. Lo sgomento dei medici che si ritrovarono davanti a quella situazione è totale! E purtroppo dopo solo cinque giorni dal ricovero ospedaliero, Lauren non ce la fa e muore tra le braccia della madre incredula e scioccata in una cameretta di ospedale. Era il 28 dicembre 1992. Solo sei giorni prima la figlia lamentava appena un mal di stomaco.
Cos’è che ha ucciso Lauren? Il medico che fece l’autopsia, nonostante una lunga esperienza, affermò (e verbalizzò) di non aver mai visto nulla di simile. La velocità del collasso dei singoli organi e poi dell’intero organismo non le diede scampo. Gli organi interni erano quasi liquefatti, l’intestino quasi trasparente.
In realtà Lauren sarà solo la prima di una lunga lista di bambini colpiti dalla stessa malattia.
Dopo l’autopsia, venne segnalato l’evento al centro malattie infettive di Seattle ma non fu presa nessuna azione poiché non vi erano altre segnalazioni dello stesso tipo. Lo si ritenne, quindi, un caso del tutto isolato.
Perciò, nessun epidemiologo, prese in considerazione cosa mangiò Lauren nei giorni precedenti la comparsa dei primi sintomi
Per 15 giorni non successe nulla. Poi…. cominciarono i problemi. Il 12 gennaio del 1993 il dottor Phil Tarr esperto gastroenterologo ascoltando la conversazione di due colleghi pediatri venne a conoscenza della presenza nel suo ospedale di bambini che presentavano una diarrea sanguinolenta. Poteva essere un caso ma poteva anche essere l’inizio di qualcosa di terribile. Il dottor Tarr attivò la sua equipe e contattò tutti gli ospedali del comprensorio di Seattle per verificare se vi fossero altri bambini con gli stessi sintomi.
Fino al 12 gennaio dell’anno seguente, il 1993, le autorità non si attivarono. Fu solo, tramite un colloquio, tra due medici pediatrici sulla contemporanea presenza di due bambini con diarrea emorragica che il dottor Phil Tarr esperto gastroenterologo capì che si poteva essere sull’orlo del disastro. poiché lui era uno dei pochi che conosceva il potenziale pericolo dell’Escherichia coli O157:H7 e i sintomi che annunciavano la sua presenza; era uno dei pochi medici ad aver già incontrato e visto i danni che quel ceppo batterico poteva fare. I sintomi dei bambini ricoverate combaciavano troppo bene per essere casuali. Si attivò immediatamente e fece chiamare dal suo staff gli altri ospedali di Seattle per verificare la presenza di ulteriori casi di diarrea emorragica. Complessivamente il conto era di 12 bambini che lamentavano diarrea con presenza di sangue. Prima ancora di attendere gli esiti del laboratorio il dottore contattò l’ufficio locale di sanità pubblica per l’emanazione di un bollettino di emergenza sulla presenza di un focolaio di contaminazione.
Cosa stava succedendo a Seattle?
Il giorno seguente il laboratorio confermò per tutti bambini la presenza di Escherichia coli O157:H7.
Ma cos’è l’Escherichia coli O157:H7? un piccolo batterio in grado di colonizzare l’intestino dei mammiferi e quindi anche dell’uomo ma ci torneremo dopo. Un batterio di cui fino a quel giorno in pochi conoscevano l’esistenza e chi comunque lo conosceva, sapeva anche che normalmente, pur colonizzando l’intestino di diversi mammiferi, non crea particolari problemi.
Questo però è un caso diverso, si tratta di un ceppo particolare di Escherichia coli denominato O157:H7 in grado di produrre una tossina che scatena una forte diarrea emorragica che può essere seguita da una cosiddetta sindrome emolitica uremica seguita da un collasso renale acuto. Una sindrome conosciuta anche con l’acronimo (SEU o dal corrispettivo inglese HUS hemolytic uremic syndrome).
Siamo al 14 gennaio e inizia una vera e propria battaglia su due fronti, da una parte l’assistenza e la cura alle persone e ai bambini colpiti e dall’altra l’obbligo di risalire velocemente alle cause per boccare il contagio.
Nella stessa settimana i ricoverati con diarrea emorragica nell’area urbana di Seattle, si cominciarono a contare a decine ogni giorno. Bisognava quindi pensare ai colpiti che giungevano alle strutture sanitarie poiché i medici e pediatri non erano preparati per affrontare quel genere di emergenza. Vennero diffusi a tutti gli ospedali alcuni consigli:
il tempo di incubazione dall’ingestione alla manifestazione dei sintomi e di 2/3 giorni.
durante questo tempo il batterio prolifera liberando la tossina che viene lentamente assorbita a livello dell’intestino tenue.
NO antibiotici i dati suggeriscono che i pazienti trattati con antibiotici peggiorano.
L’altro fronte della battaglia imponeva di trovare, il più velocemente possibile, la causa e di bloccarla subito. L’epidemiologista Morgan Kobayashi sulla base della residenza dei colpiti si capì cje la contaminazione poteva provenire o da una catena di ristoranti o di supermercati.
Le interviste ai familiari sulle abitudini alimentari dei bambini colpiti ebbero un unico fattore comune: uno, o più passaggi, da una catena di fast-food: “Jack in the box”.
Nel 1992 Jack in the box era la quinta catena di fast-food per importanza negli Stati Uniti con 1.155 punti vendita. Un colosso. Proprio nel 92 registrò l’anno migliore di sempre una crescita enorme grazie soprattutto ad un’iniziativa promozionale: il Monster Burger. Lo slogan riportava letteralmente “buono da paura “.
I dirigenti della catena furono contattati dai funzionari sanitari che comunicarono loro il problema. MA la risposta dell’azienda era l’assoluta certezza che i prodotti somministrati erano della massima qualità e che i ristoranti rispettavano le norme federali di igiene. Talmente sicuri che non ebbero problemi a far ispezionare alcune strutture. Gli ispettori sanitari sapevano che le indagini dovevano essere condotte velocemente e molto accuratamente anche in considerazione delle possibili conseguenze.
Si inizio dalla fine…. ovvero dai ristoranti. Il punto terminale della filiera alimentare. Per poi risalire tutta la filiera di approvvigionamento della carne fino agli allevamenti. Per quanto le informazioni di allora lo consentissero.
Le ispezioni e le indagini nei ristoranti riguardarono le norme igieniche e comportamentali del personale, le regole igieniche imposte nella lavorazione dei prodotti e le condizioni generali di igiene e pulizia delle cucine. Tutto risultò adeguato tranne….. una cosa.
Per gli hamburger si prevedeva la cottura su piastra in due minuti (un minuto per parte) per a 140° F ( che corrispondono a 60°C). Una temperatura troppo bassa. Ma in regola con le norme federali statunitensi dell’epoca.
Una temperatura, che secondo alcuni documenti dell’azienda era corretta anche per motivi organolettici. Si scoprì infatti, in seguito, in documenti interni che l’azienda dichiarava che “Se gli hamburger vengono cotti più a lungo … tendono a diventare duri”. Questo commento apparve in una risposta all’azienda ad un dipendente di un ristorante preoccupato proprio che la cottura non fosse adeguata. Quel memo era stato scritto in agosto, quattro mesi prima dell’epidemia.
Il primo grande errore fu quindi la temperatura di cottura troppo, troppo bassa.
Ma è sufficiente per giustificare quello che sta succedendo a Seattle?
Più di 700 persone ricoverate con gravi sintomi. Tra cui molti bambini, gli individui più indifesi e per questo le vittime ideali delle contaminazioni alimentati. Alla fine di questo focolaio di contaminazione si conteranno quattro bambini morti e molti altri con problemi e lunghi anni di riabilitazione.
Cosa causò tutto questo?
Il problema era negli hamburger. Ma non poteva esser colpa solo della scarsa cottura.
Inoltre, a differenza di quanto pensavano i dirigenti, non in regola. Già perché pochi mesi prima (metà 1992) lo stato di Washington elevò quelli che erano i limiti federali di 140°F a 160°F (71°C) come temperatura da raggiungere a cuore del prodotto. Negli stati uniti le norme statali prevalgono su quelle federali. La catena si trova quindi in dolo anche dal punto di vista normativo. Questo sarà fondamentale successivamente in tribunale per i risarcimenti alle vittime. Paradossalmente se questo evento fosse capitato in un altro stato, la ditta avrebbe potuto dimostrare di essere in regola con le leggi vigenti.
In questo caso però no, sfortunatamente l’aggiornamento normativo statale non fu considerato…. Forse perché avrebbe potuto compromettere tempi di preparazione e percezione finale del prodotto…?? O forse più semplicemente per distrazione.
Ma l’indagine non può fermarsi qui. Quella carne non doveva essere contaminata. Non doveva arrivare contaminata nei ristoranti. Si risale quindi al fornitore e alla filiera di lavorazione fino ai macelli coinvolti.
E fu come scoperchiare il vaso di pandora
Un inferno fatto di scarsa igiene, contaminazioni fecali, lavoratori inesperti, scarsamente pagati e non formati
Le indagini non fanno altro che rivelare quello che in molti già sapevano. Le strutture, l’organizzazione e le regole con cui venivano lavorati migliaia di capi di bestiame erano i medesimi di inizio secolo con evidenti carenze igieniche e di controlli.
I tecnici sanitari addetti al controllo dei capi macellati lamentavano scarsità di mezzi e procedure datate al 1900 dove ad esempio, per la conformità delle carcasse si considerava l’odore e non i tamponi microbiologici.
Si scopre il velo, quindi, di un grande, grandissimo problema. Il consumo crescente, l’aumento del numero di capi allevati e macellati, l’ingresso di manodopera non adeguatamente formata rende tutta la filiera a rischio di presenza di contaminazione.
Carne contaminata che a sua volta contamina le attrezzature e i luoghi dove viene successivamente lavorata. Dai macelli infatti le carni arrivano ai centri di lavorazione che fornivano la catena di fast food e in questa struttura, le metodiche di lavoro, i tempi e l’alta produttività obbligata dalle richieste di fornitura contribuiscono al dilagare della contaminazione.
Quindi chi o cosa ha ucciso Lauren e gli altri bambini?
Un batterio. Non un batterio normale. Un batterio killer. Un batterio che è arrivato negli hamburger partendo dall’intestino di alcuni bovini macellati male. Un Batterio che si chiama Escherichia coli O157:H7
Molti di noi hanno il normale E. coli nell’intestino, dove contribuisce alla flora intestinale. Nei bovini è fondamentale per una corretta digestione delle fibre. Ma l’E. coli killer è un ceppo diverso è in grado di produrre una tossina che provoca prima la diarrea poi la sindrome uremica e il collasso degli organi interni.
Lauren morì a causa dell’ Escherichia coli O157:H7 che ne causò il collasso e il successivo coma e poi la morte. E. coli che ingerì attraverso un hamburger non abbastanza cotto e contaminato per la scarsa igiene del macello e di tutte le strutture che lavorarono quella carne. La colpa non fu della natura crudele ma dell’uomo che nelle diverse attività coinvolte nella filiera non gesti il personale e le lavorazioni in modo adeguato.
In un’altra putata troveremo il tempo per spiegare anche gli sviluppi legali di questa vicenda, per quale cavillo le vittime poterono ottenere un risarcimento, la storia delle altre vittime tra cui Riley un bambino di 16 mesi che morì anche lui a causa di questo E. coli senza ma aver messo piede in un fast food e poi Brianne di 9 anni che rimase in coma a lungo e ripetutamente operata, ma riuscì a sopravvivere. E poi del Presidente Clinton che propri in quei giorni iniziò il suo primo mandato presidenziale e si impegnò pubblicamente per evitare il ripetersi di queste tragedie. Ma tutto questo è un’altra storia.
A presto per un’altra storia di Cibi Criminali
LINK AL PODCAST DELL’EPISODIO DI CIBI CRIMINALI
LINK ALLE FONTI
https://www.cdc.gov/foodborneburden/index.html
https://www.ou.edu/deptcomm/dodjcc/groups/02C2/Jack%20in%20the%20Box.htm
http://marlerclark.com/news_events/jack-in-the-box-e-coli-outbreak-western-states
http://www.about-ecoli.com/ecoli_outbreaks/news/aftermath-of-a-miracle/#.WcKpJMirRPZ
http://articles.latimes.com/2001/jun/06/food/fo-6863
http://www.foodsafetynews.com/2013/02/jack-in-the-box-and-the-decline-of-e-coli/#.WcKplsirRPZ
http://community.seattletimes.nwsource.com/archive/?date=19960707&slug=2338048